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La mela dipinta




Breve introduzione


Il melo, originario dell’Asia, è anticamente documentato nella valle del Nilo, già ai tempi del faraone Ramses II nel XIII secolo a.C.
Attraverso numerosi miti e leggende di diverse culture ed età, il melo e il suo frutto, la mela, sono la rappresentazione dell'archetipo della Grande Madre e da sempre hanno colpito l'immaginario umano.
La mela dell’Eden segna il punto di confine fra una vita eterna, paradisiaca, piena di gioie, delizie e agi, e una vita brevissima, irta di pericoli e malattie. Essa diventa simbolo della differenza tra il bene e il male, tra l’obbedienza e la disobbedienza, tra l'amore e l'odio.
Le mele del giardino delle Esperidi sono i frutti di una natura che, al servizio del divino, si manifesta in forme armoniose di bellezza.
La mela può essere considerata una metafora universale del dare e ricevere amore.
Il pomo è simbolo della bellezza, della gioventù, dell’amore sensuale, dell’unione carnale e della fertilità.
Sul piano spirituale esso rappresentare il potere dell'Amore, della devozione agli dei, del superamento della dualità e la comunione con il divino.
A causa della sua forma sferica e della presenza, al suo interno, dei semi della vita, la mela simboleggiava il cosmo e il potere imperiale; nelle apparizioni pubbliche, gli imperatori del Sacro Romano Impero reggevano con la mano destra lo scettro e con la sinistra la mela d’oro, allegoria del potere.
Secondo la visione scientifica elaborata dalla botanica, la mela è un falso frutto che non si apre spontaneamente per far uscire il seme.




Indice

 
Arte Sacra
• Malum - Adamo ed Eva di Jacopo Negretti detto Palma il Vecchio • Mater amabilis - Madonna Trivulzio di Giovanni Bellini - Madonna greca di Giovanni Bellini • S.ta Dorotea - Santi Girolamo e Dorotea adorano Gesù nel sepolcro di Alessandro Bonvicino detto il Moretto - Santa Dorotea di Giambattista Moroni Arte profana
• Eros chrysómelon - Allegoria del trionfo di Venere di Agnolo Bronzino • Seducenti rotondi pomi - Ritratto di donna con mela di Jacopo Negretti detto Palma il Vecchio • Vanitas - Piatto di mele, un rametto di rose e una mela su uno stipo di Evaristo Baschenis - Strumenti musicali con spartiti, calamaio, libri e mele di Evaristo Baschenis • Pomario - Mele di Bartolomeo Bimbi • Imprese e motti: “fragrantia durat” - Francesco Sforza e la mela cotogna


Arte Sacra

Malum


Nella cultura dell'Europa occidentale, soprattutto a partire dal Medioevo, l'albero della conoscenza del bene e del male viene considerato un melo.
Questa identificazione nasce probabilmente da una lettura allegorica del testo biblico: in latino la stessa parola, malum, può riferirsi sia al frutto del melo, sia al "male", e per tale motivo i commentatori avrebbero favorito l'identificazione, passata poi anche nelle arti figurative, tra il simbolico frutto dell'albero e la mela.
Non è da escludere l’ipotesi che col diffondersi del cristianesimo nell’Europa continentale, in cui il fico non era conosciuto, esso sia stato sostituito dalla mela-malum, in modo da rendere chiare ed immediate le rappresentazioni figurative.
Inoltre la mela, in alcune culture anteriori al cristianesimo, era l'attributo di Venere, la dea dell'amore nella sua accezione erotica.
È possibile che l'iconografia di due giovani che si scambiano una mela – in cui, inizialmente, era abbastanza indifferente chi si pensava stesse dando e chi ricevendo il frutto – sia poi passata in ambito cristiano, dando origine alla identificazione tra il frutto proibito e la mela stessa.
All’interno di questa interpretazione si colloca l’identificazione della sporgenza cartilaginea tiroidea sulla parte anteriore del collo degli uomini, detta “pomo di Adamo”, quale ricordo di un pezzo del frutto proibito rimasto in gola al nostro progenitore.

Palma il Vecchio (Jacopo Negretti)
Adamo ed Eva
1520-1522
Olio su tela, 202 x 152 cm
Braunschweig, Herzog Anton Ulrich-Museum

Questo monumentale dipinto, con le figure leggermente più grandi delle dimensioni naturali, presenta danni estesi dovuti a perdita di colore, rimaneggiamenti e vernici opache. Benché ampliamente restaurato nel XIX secolo, non vi si è più posto mano dal 1910.
Inizialmente fu attribuito al Giorgione e acquistato come tale nel 1767 per la galleria di Carlo I Salzdahlum. Solo nel 1832 fu riconosciuta come opera di Palma il Vecchio, e fatta propria dal catalogo dell’Herzog Anton Ulrich-Museum di Braunschweig per la prima volta nel 1887.
Molti autori sono stati indotti a datare il dipinto negli anni 1520-1522 basandosi sulla possibilità che lo stesso, l’unico Adamo ed Eva esistente nell’opera di Palma, sia stato visto nel 1521 da Marcantonio Michiel a Venezia nella collezione di Francesco Zio.
Le figure sono a grandezza naturale e le dimensioni sono quelle di una pala d’altare.
Francesco Zio era un collezionista di arte antica e l’atmosfera da scultura classica che pervade il dipinto, solo lievemente adombrata dal tema del “peccato originale”, dà forza alla supposizione che venne da lui direttamente commissionato all’artista.
La composizione si basa su un’incisione di analogo soggetto di Dürer del 1504, le cui origini figurative ellenistiche sono ben note.

       

Tuttavia Palma per le sue figure si ispirò all’ Adamo di Tullio Lombardo, e probabilmente all’ Eva attualmente dispersa, scolpite appena dopo il 1490 per le nicchie laterali della tomba monumentale di Andrea Vendramin originariamente posta all’interno della chiesa veneziana di S.Maria dei Servi.
L’ Adamo ed Eva di Braunschweig può infatti costituire l’ultimo episodio dell’influsso del Lombardo sull’opera di Palma come si può osservare nell’articolazione anatomica di Adamo, dai contorni morbidi, dalle ombre sfumate e dalle superfici semplificate. Inoltre la presa d’Adamo sul ramoscello di fico, col quale si copre il sesso, è ripresa tal quale dal Lombardo.
Sabine Jacob, del Herzog Anton Ulrich-Museum, ha notato la stretta somiglianza dei volti dell’Adamo di Palma e dell’Adamo nella creazione di Michelangelo nella Cappella Sistina. L’interesse di Palma per Michelangelo è altrimenti dimostrabile, e tale fonte è convincente.
Ancora una volta si ha l’impressione di un Palma intento a riempire uno schema ancor vuoto nella decade sperimentale che seguì il 1510.
La graduale trasformazione dello stile di Palma risale a una rottura con il primo Rinascimento.
Nel corso della seconda decade Palma intraprese l’esperienza di una nuova estetica: egli costruisce un nuovo canone di bellezza femminile, sia nei “ritratti” ideali e poetici, sia nelle figure di sante, che offre ad una committenza privata attenta al piacere della contemplazione artistica più che alla devozione.
L’elemento dinamico e narrativo nelle sacre conversazioni e nelle pale d’altare si affianca e si rinforza con il naturalismo che egli sviluppa a partire dal paesaggio e dai volti dei soggetti raffigurati. Il naturalismo del Palma suggerisce un desiderio di fuga dalla storia, di un ritorno ad una natura vissuta come luogo di serenità e intimità, che si richiede alla poesia, ed è proprio questa atmosfera poetica che pervade il dipinto.




Mater Amabilis


Quando Giovanni Bellini incominciò a produrre, alla metà del ‘400, le sue immagini di Madonna a mezza figura era sua intenzione dare un’immagine della Vergine come ritratto di Maria ricollegandosi a quello eseguito, secondo la tradizione, da S.Luca.
Non deve sorprendere questa allusione alla leggenda così come alla forma pittorica delle icone, poiché a Venezia i modelli dell’oriente bizantino erano considerati con la massima venerazione.
Gli stessi dettagli del costume di Maria – il velo che scende a coprirle la fronte, le pieghe del mantello che ricade sulle spalle – sono evocativi delle sacre icone.
Simile all’iconografia bizantina è il volto ovale della Vergine dominato da grandi occhi quasi sempre scuri e raramente diretti al Bambino e ancor più di rado all’osservatore.
Il distacco che ne deriva non è indifferenza ma prescienza mescolata con la tristezza.
Il parapetto, sola forma prospettica nelle Madonne del Bellini, pone la presenza immediata di Maria e del Cristo in primo piano, nel momento stesso in cui separa il mondo del sacro dal nostro mondo quotidiano.
Il Cristo Bambino è appoggiato sul davanzale, proiettato verso l’osservatore, e quasi sembra uscire dallo spazio del dipinto.
La Madonna gli è accanto dietro il parapetto e la vicinanza all’osservatore viene enfatizzata dalle sue dimensioni.
Il davanzale diventa simbolicamente altare, dove le sfere del sacro e del terreno si incontrano, dove il sacrificio di Cristo viene ritualizzato nella sacra celebrazione.
L’altare-parapetto è anche l’equivalente metaforico della tomba e della stessa Vergine Madre poiché in entrambe il Cristo è rinchiuso e da entrambe è nato.
Le Madonne del Bellini ci restituiscono l’immagine mariana della MATER AMABILIS, la Madre che presenta il Figlio alla nostra adorazione.

Giovanni Bellini
Madonna col Bambino – Madonna Trivulzio (Madonna della mela)
1460-1465
Tempera su tavola
78 x 50 cm
Pinacoteca del Castello Sforzesco - Milano

L'opera, firmata sul cartiglio appeso lungo il parapetto (IO[HANN]ES B[ELLI]N[US] F.), viene datata al periodo giovanile dell'artista, quando vivo era il confronto con il cognato Andrea Mantegna dal quale trasse numerosi spunti stilistici. Alcuni storici hanno espresso dubbi sulla paternità della tavola per i tratti arcaici del panneggio e delle aureole, la linea incisiva e i netti stacchi cromatici, l’acerba bellezza della figura, ma il restauro del 1999 ha confermato l'autenticità della firma.
La tavola faceva parte delle collezioni del principe Luigi Alberico Trivulzio. Nel 1935 fu oggetto di una delle più importanti transazione d'arte in Italia: contesa fra Torino e Milano, venne destinata alla città lombarda ed inserita nella raccolta della Pinacoteca del Castello Sforzesco.
Originariamente diversa nel formato, la centinatura attuale è il risultato di un adattamento posteriore.
La Madonna, vestita di un inconsueto mantello rosa, tiene il Bambino appoggiato su una balaustra, oltre la quale penzola un lembo della veste proiettandosi "oltre il confine", verso lo spettatore.
I loro sguardi non si incontrano, come di consueto in questo tipo di iconografia, ma la loro intimità familiare è sottolineata dai gesti che intrecciano tra loro. Gesù tiene in mano una mela, frutto del Bene e del Male, simbolo del Peccato originale e quindi della sua Passione espiativa; Maria sembra quasi voler sottrarglielo e il suo sguardo pensoso e malinconico sottintende la prefigurazione del destino tragico del Figlio.
La deformità del collo e della mano della Vergine viene interpretata dalla critica come probabili interventi di mano dei suoi collaboratori.

Giovanni Bellini
Madonna greca
1460-1470
Tempera su tavola
82 x 62 cm
Pinacoteca di Brera – Milano

Non c'è allineamento tra gli storici dell'arte nella datazione della cosiddetta Madonna greca (dai monogrammi in lettere greche scritti ai lati dell'immagine): alcuni la datano ai primi lavori dell'artista, tra la fine degli anni cinquanta e l'inizio degli anni sessanta, altri negli anni settanta, quando si avviava a manifestare il distacco dall'esempio di Andrea Mantegna.
L'opera si trovava nell'ufficio dei Regulatori di Scrittura a palazzo Ducale a Venezia quando venne requisita durante le soppressioni napoleoniche e destinata subito, nel 1808, alla nascente milanese Pinacoteca di Brera.
Maria sorregge saldamente tra le mani il Bambino, il quale si appoggia al bordo inferiore della cornice dipinta, oltre la quale sporgono invece alcuni lembi della veste di Maria. Gesù ha in mano una mela dorata, forse un richiamo alla leggenda di Paride ed a Maria-nuova Venere. L'aspetto generale dell'opera rimanda alla fissità iconica alle immagini bizantine, ravvivate dai dolci gesti che legano madre e figlio vivificandone le figure.
Pellizzari aveva addirittura ipotizzato che l'opera avesse avuto originariamente un fondo oro, ma ciò è stato smentito dal restauro del 1986. In quell'occasione si è anche scoperto che i frammenti d'oro vicino alle lettere greche sono un'aggiunta cinquecentesca, mentre lo sfondo originario era una tenda retta da una cordicella oltre la quale si intravede un cielo blu. Gli sguardi dei protagonisti, come di consueto in questo tema, non si incontrano, ma la familiarità è resa dall'intrecciarsi delle mani, che crea un tenero abbraccio della Madre verso il Figlio. L'espressione è però pensosa e malinconica, perché ricorda la consapevolezza della futura sorte tragica di Gesù, destinato alla Passione.
Da un punto di vista tecnico, la tavola venne preparata come da tradizione con gesso e colla, sui quali il pittore fece un disegno preparatorio dove è tracciato con estrema precisione anche il chiaroscuro con sottili trattini incrociati molto regolari, visibili all'infrarosso. Si tratta di un modo di disegnare tipico di Bellini, che venne descritto anche nel Dialogo di pittura di Paolo Pino (del 1548).



Santa Dorotea


Santa Dorotea è commemorata nel Martirologio romano il giorno 6 febbraio, data del suo martirio avvenuto in Cesarea di Cappadocia nel 311 durante la persecuzione di Diocleziano.

Ludovico Lana
S. Dorotea
Olio su tela, cm 84 x 69
Modena, Galleria Estense

Dorotea è narrata in un'antica passio del Martirologio Geronimiano che la descrive come "caritatevole, pura e sapiente". Di fede cristiana, quando il prefetto romano Sapricio le chiese di fare un sacrificio agli dei, essa si rifiutò e venne torturata. Venne affidata a Crista e Callista, due sorelle apostate, affinché la convincessero a lasciare la religione cristiana, ma entrambe furono a loro volta convertite e quindi bruciate vive, mentre Dorotea fu condannata alla decapitazione. Sulla strada del martirio, incontrò Teofilo, il quale le chiese ironicamente di farsi inviare come dono dal suo sposo celeste delle rose e delle mele. Dorotea accettò e, prima della decapitazione, durante una preghiera, un bambino le portò tre rose e tre mele. Teofilo, visto il prodigio, si convertì al Cristianesimo. Le reliquie di Dorotea., trasportate a Roma, si venerano nella omonima chiesa in Trastevere.

Alessandro Bonvicino detto il Moretto
Santi Girolamo e Dorotea adorano Gesù nel sepolcro
1520-1521
Tempera verniciata su tela, cm 120 × 140
Brescia, Chiesa di Santa Maria in Calchera

La presenza della tela nella chiesa non è mai stata storicamente giustificata, essendo i due santi raffiguranti estranei al culto delle tradizioni religiose di questa parrocchia.
Abbastanza inusuale e difficilmente giustificabile è anche l'accostamento tra san Girolamo e santa Dorotea.
È molto probabile, ma non ci sono pervenuti documenti comprovanti, che la tela fosse legata in origine alla Confraternita del Divino Amore, attiva a Brescia durante il Cinquecento e con la quale il Moretto ebbe diversi contatti.
La confraternita era appunto legata al culto dei due santi, poiché nella chiesa di Santa Dorotea a Roma era nato il nucleo originario della compagnia e, nel giorno della festività di san Girolamo, si tenevano le elezioni del priore.
È verosimile, quindi, che la tela fosse in origine una piccola pala d'altare per l'oratorio della confraternita. Tuttavia non si conosce, il motivo per il quale l'opera pervenne infine alla chiesa di Santa Maria in Calchera, dove comunque doveva essere già presente nel 1630, poiché Bernardino Faino la descrive nella sua guida di Brescia: “Vi è un quadretto dipinto à tempera dal nro Moretto, fintoui nel mezo un Cristo passo nel mezo et Sto Hieronimo et Sta Dorotea”.

L'opera, dal tono abbastanza cupo, raffigura Gesù in atto di emergere dal sepolcro, affiancato a sinistra da san Girolamo e a destra da S. Dorotea.
Entrambi sono in atteggiamento contemplativo e la santa reca in grembo un cesto di rose.
La scena si svolge in un paesaggio roccioso che si eleva molto massiccio dietro la figura di Cristo, mentre ai lati si scorge un paesaggio collinare con alcuni alberi e un piccolo fabbricato.
Si tratta di un lavoro giovanile del Moretto e, complessivamente, valutato dalla critica di poco pregio. I colori sono molto scuri e spenti se rapportati al tema della risurrezione: anzi, la parte maggiormente in ombra sembra essere proprio il volto di Cristo.
I due santi in adorazione indossano vesti abbastanza semplici e appaiono di minore livello stilistico rispetto ai risultati già comunque ottenuti in precedenti lavori dell'autore.
L'opera, indipendentemente dal giudizio critico, resta comunque rilevante come testimonianza dei primi passi del percorso artistico e compositivo del Moretto.

 
Giovan Battista Moroni
Santa Dorotea
1560-1565 ca.
Olio su tavola, cm 35 × 34.5 (diametro 32.5)
Budapest, Szépmüvészeti Múzeum

In pendant con la Santa Caterina di Alessandria, entrambe le tavole furono acquistate a Venezia nel 1895 da Luigi Resimini, attraverso Károly von Pulszky.
Si osserva un certo grafismo nelle cadenze del velo e nella marcatura dei tratti del viso, così come la mano piatta che regge il cestino di mele e rose. Tuttavia la maggior complessità del tessuto pittorico e la più sapiente fisionomia datano questa notevole tavoletta nella prima metà del sesto decennio.



Arte Profana

Eros Chrysómelon


La mela cotogna, ovvero mela d’oro, è identificata con i famosi pomi d’oro del giardino delle Esperidi e nell’iconografia mitologica classica è attributo di Venere, uno dei soggetti più rappresentati.


Agnolo Bronzino
Allegoria del trionfo di Venere
1540-1545
Olio su tavola, cm 146 x 116
Londra, National Gallery

Fra tutti gli artisti reclutati e giunti a Firenze nel 1539 in occasione delle nozze di Cosimo I de’ Medici con Eleonora di Toledo, il principe appena ventenne, rimase particolarmente colpito dal talento di Agnolo Bronzino che “conosciuta la virtù di quest’uomo, gli fece metter mano a fare del suo ducal palazzo una cappella non molto grande per la detta signora duchessa”. (G. Vasari).
Gli stessi anni nei quali lavorò all’interno di Palazzo Vecchio sono anche i migliori durante i quali vide la luce l’ Allegoria della National Gallery di Londra.
Capolavoro di gelido erotismo, il dipinto è con certezza da identificare con quello che Giorgio Vasari dice di essere stato inviato al re di Francia Francesco I: “Fece un quadro di singolare bellezza, che fu mandato in Francia al re Francesco, dentro al quale era una Venere ignuda con Cupido che la baciava, et il Piacere da un lato et il Giuco con altri amori, e dall’altro la Fraude, la Gelosia et altre passioni d’amore”.
Tuttavia non è dato sapere se omaggio della corte ducale o, più probabilmente, dono di Bartolomeo Panciatichi, ricco mercante fiorentino in stretti rapporti d’affari con il duca, colto e raffinato uomo che da giovane era stato al servizio del re di Francia, ritratto da Bronzino nel celebre dipinto degli Uffizi.
La destinazione era strettamente privata, come dimostra il fatto che la tavola non venga citata nelle collezioni reali e sia stata replicata in sole tre copie.
Il soggetto va interpretato come un’opera moralistica tesa ad illustrare gli effetti perversi dell’Amor profano; come monito contro le trappole dell’amore, i vizi e le vanità.
In una specie di alcova il Tempo e la Frode coprono con un drappo azzurro una scena fortemente erotica, tra una sensuale Venere e un androgino Cupido, che conducono un illusorio gioco amoroso, accompagnati dal Gioco (il bambino nell’atto di spargere fiori) e dal Piacere (la fanciulla dal corpo di serpente che tiene in mano un favo di miele e nell’altra un aculeo di scorpione).
Accanto a loro, le trappole d’amore: la Gelosia (la donna che urla in secondo piano, oggi interpretata come la Sifilide) rappresentata nell’atto di stringersi la testa tra le mani e le maschere che, accostate al bambino-Gioco e al Cupido che amoreggia con la madre, rimandano simbolicamente all’omosessualità, alla pedofilia e all’incesto.
Come a volte succede nell’arte della Maniera, le intenzioni moralistiche funzionano come stimolo alle allusioni e alle fantasie erotiche. In quest’opera è ben visibile, per la prima volta, quella particolare forma di sensualità così caratteristica del tardo manierismo che può essere definita “occulto erotismo”.



Seducenti Rotondi Pomi


... alcune delle donne ritratte sembrano avere del pari un riferimento diretto ...

La mela se da un lato è simbolo della seduzione nobilitato dalla tradizione, dall’altro è un riferimento diretto alla sessualità femminile in generale e ai seni in particolare, dato che a volte vengono paragonati a rotondi pomi.
Tale tendenza allusiva esiste tra le cortigiane, ma un analogo riferimento traspare nei ritratti di donne con la mela apparentemente rispettabili in cui lo sguardo seducente trasmette desiderio.

Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Museo di Palazzo Reale di Genova


Palma il Vecchio
Ritratto di donna con mela
Olio su tela, cm 58 x 48
Genova, Palazzo Reale - Sala del Tempo

Questo bel ritratto di giovane donna rientra nel tipo iconografico della cortigiana, assai fortunato soprattutto nei territori della Repubblica veneta nei primi decenni del XVI secolo.
L’anonima effigiata, colta di tre quarti è caratterizzata da vaporosi, rifulgenti capelli rossi che scendono liberi sulla spalla sinistra e sono invece raccolti sul lato opposto da una spilla a forma di margherita, probabilmente allusiva al nome della donna.
La giovane indossa una veste, forse di velluto, con ampia scollatura sopra una camicia bianca di leggero tessuto ondulato aperta, da un laccetto rosso disfatto, sull’incarnato chiaro e morbido. La manica destra è tagliata e decorata da un nastro rosa annodato a fiocco; dal taglio emerge il soffice lino della camicia.
La giovane cortigiana tiene tra le dita della mano sinistra, visibile nell’angolo in basso a destra, un piccolo pomo, con molta probabilità una mela rossa, esplicito riferimento al frutto proibito dell’Eden e al pomo della vittoria di Venere.
Al dito medio della mano si scorgono due sottili anelli, uno decorato da una pietra.
Un basso parapetto divide il ritratto dal piano dell’osservatore, secondo un’iconografia comune alla pittura veneta già alla fine del Quattrocento.
Non è dato sapere se il dipinto raffiguri un personaggio reale: composizioni come questa, riferibili soprattutto all’opera del Palma il Vecchio, presentano in genere caratteri fisionomici riconducibili a un tipo comune, tanto da far supporre che tendano a rappresentare, piuttosto che ritratti veri e propri, un ideale di bellezza femminile inteso a enfatizzare la tensione del desiderio. L’iconografia della donna con la mela è documentata nel catalogo del Palma da un altro dipinto di una collezione privata a Parigi.
Non si hanno notizie certe sull’entrata di quest’opera nella Collezione Durazzo di Palazzo Balbi, tuttavia potrebbe essere confluito nella quadreria del palazzo grazie agli intensi rapporti di parentela che legarono i Durazzo ai Balbi fondatori.

  

Già inventariato dal 1877 come opera del Palma, la critica registra assonanze tra il dipinto genovese e il Ritratto di giovane donna di spalle del museo di Vienna, datato tra il 1520 e il 1525, per il profilo del volto, il taglio degli occhi e l’ombra del collo.
Tali confronti si potrebbero in verità estendere per vicinanza alle tipologie umane dell’artista, caratterizzate da guance morbidamente modellate, dall’epidermide pallida, dal piccolo mento tondo con una lieve fossetta, dalla forma della bocca piccola e carnosa al centro, dagli occhi ovali grandi e ben separati.



Vanitas


... Evaristo Baschenis Sacerdote ... resosi nel dipinger al naturale oggetti specialmente inanimati singolare e nel rappresentar li stromenti et figure dell’arti liberali impareggiabile velocemente caminò per la via dell’immortalità.

Donato Calvi “Effemeride sacro-profana di quanto di memorabile sia successo in Bergamo, ecc. dai suoi principi fin’al corrente anno” – Milano, 1677


Evaristo Baschenis
Piatto di mele, un rametto di rose e una mela su uno stipo
? 1640-1645
Olio su tela, cm. 41 x 50
Bergamo, collezione privata

Su uno stipo di legno di rustica fattura, entro un semplice piatto di terraglia, è presentato un trionfo di mele disposte su tre livelli in forma piramidale.
Una mela solitaria è appoggiata sul piano in precario equilibrio e un ramo di rose – una appena in boccio, l’altra ancora chiusa – pende diagonalmente in direzione dell’osservatore proiettando una lunga ombra sulla base dello stipo.
Inquadrata con un punto di vista ravvicinato e lievemente rialzato secondo uno schema arcaizzante e filo fiammingo che trova significative precedenze in artisti lombardi di primo Seicento come Felice Galizia e Panfilo Nuvolone, la composizione si segnala per la drammatica evidenza e le qualità ottico-tattili dei frutti, plasticamente rilevati dal fondo buio e indistinto dal violento raggio di luce.
Il dipinto è stato attribuito al Baschenis per la prima volta dal Valsecchi nel 1972, e considerato tra i più precoci lavori dell’artista, verosimilmente dei primi anni Quaranta.
Il piccola tela suggerisce gli agganci necessari a inquadrare gli esordi del pittore entro le coordinate di una tradizione locale che si evolve verso un severo realismo di certi dettagli di natura presenti nelle pale bergamasche del Moretto, del Cavagna sino al Ceresa.
La soluzione immaginativa vede opporre alla rigida stereometria della cassetta monocroma – lievemente difettosa nella rappresentazione prospettica – l’esuberanza plastico-coloristica delle mele inaugurando una nuova concezione di allestimento della natura morta che rifugge dalla visione simmetrica e centralizzata a favore di equilibri compositivi più complessi e di una accurata compattezza formale.
Osservando con attenzione l’opera, il bilanciamento compositivo è ottenuto, a dispetto della dislocazione eccentrica del piano d’appoggio, attraverso il maggior peso visivo assegnato al piatto di mele in posizione più centrale, alla doppia diagonale della rosa con la sua ombra, all’orchestrazione della luce radente di deduzione caravaggesca che allarga di un buio profondo la porzione destra del dipinto.
Il sottile intreccio di connotati realistici e moraleggianti legittimano un’interpretazione del soggetto raffigurato anche in termini di vanitas: la rosa recisa in primo piano e i guasti sui frutti in piena luce sono indicatori del tempo e della caducità del Bello.


Evaristo Baschenis
Strumenti musicali con spartiti, calamaio, libri e mele
? 1670-1680
Olio su tela, cm. 95 x 128
Bergamo, Accademia Carrara

Sul gran tavolo in primo piano in posizione asimmetrica e parallelo alla tela, coperto da un tappeto verde ormai sbiadito dal tempo, sono disposti in ordine sparso alcuni strumenti musicali, due libri, un calamaio con penna d’oca, uno stipo sormontato da due mele screziate rosso-gialle e alcuni fogli da musica.
Il caos apparente degli oggetti si dimostra, frutto di un calibratissimo schema compositivo, secondo un disegno a “W” che trova riscontro a partire dalle due grandi diagonali della spinetta a sinistra – posta di scorcio e in aggetto con lo spigolo quasi a emergere dal dipinto – e della tastiera con chiocciola del violoncello, la cui parte inferiore si perde nel buio indefinito dello sfondo esaltando per contrasto l’elegante disegno del ponticello. In relazione a esse, con andamento alternatamente ortogonale e parallelo, sono orientate le direttrici del liuto e della bombarda, del libro sul tappeto e del flauto a becco.
La composizione, bloccata nella parte superiore dall’orizzontale dell’archicetera che fa da ponte tra i due blocchi, è riequilibrata a destra dal sontuoso tendaggio di broccato rosso intessuto in oro, a sua volta in relazione dialettica con la fredda cromia del tappeto verde su cui si staccano in termini grafico-luministici i fili e le matassine di budello degli strumenti.
Considerato dalla critica opera della tarda maturità del pittore, è databile tra il settimo e l’ottavo decennio del Seicento.
Nella parte inferiore della composizione la presenza del libro con l’iscrizioneManuale de Giardinieri trova forse riscontro nel documentato interesse di Baschenis per tale genere di occupazione, documentata dalla presenza di alberi di arancio e di gelsomini nonché di attrezzi da giardinaggio nell’inventario dei suoi beni.
La tela
Il dipinto molto verosimilmente fu commissionato dall’abate Francesco Superchi priore dal 1671 al 1676 del monastero benedettino di San Paolo d'Argon, a pochi kilometri da Bergamo.
Insieme ad altre quattro tele di Baschenis, l’opera faceva parte dell’originaria collezione Carrara per poi essere successivamente venduta dalla Commissaria nel 1835 ed infine rientrare in Pinacoteca nel 1912 per donazione del conte Paolo Lupi.




Pomarium


  

Bartolomeo Bimbi
Mele
Olio su tela, 215 x 275 cm
Poggio a Caiano, villa medicea

Mele siglato e datato 1696 il dipinto si configura come il primo dei numerosi “campionari” di frutta dipinto dal Bimbi su comando di Cosimo III de’ Medici per arredare la Topaia, il casino posto nelle vicinanze della Villa di Castello destinato dal granduca alla conservazione della suddetta tela e del suo pendant Fichi dipinto nello stesso anno.
Tutte le tele furono realizzate per soddisfare la curiosità scientifica del principe che creò questo museo di varietà ed eccezionalità botaniche dipinte quale specchio delle coltivazioni circostanti la residenza, quali memoria figurativa della ricchezza dei prodotti della terra toscana.
L’intero campionario delle “frutterie” del Bimbi, dipinto nell’arco di un ventennio, ben si inserisce in quella particolare concezione umanistica e religiosa di stampo devoto di Cosimo III per la natura, intesa come lode alle meraviglie della terra, creazione divina, e sommo dono della Provvidenza.

La tela presenta 59 tipi di mele, divise per gruppi, alcune sistemate in un vassoio e in un canestro in secondo piano, altre appoggiate direttamente sul marmo del tavolo, contrapposte a un fondale uniforme che a destra si apre verso un paesaggio, rivelato dal cortinaggio aperto.
Un vaso bicolore, probabilmente Montelupo, con il collo decorato con un’arpia coronata e contenente una canna sulla quale si arrampica un tralcio di aristolochia fiorita, uno stelo di tuberosa e un ramo di rose, arricchisce questa calibratissima “frutteria”, completata dalla diligente catalogazione dei vari pomi, vergata sulla carta posta in primo piano, vera e propria macchia di colore in questo insieme cromaticamente accordato sui toni caldi, solari, delle mele, graduate con sapienza nel loro vario grado di maturazione.
Di bella qualità pittorica nella nappa “cardinalizia” visibile in alto, nel superbo piano d’appoggio e nei frutti posti in primo piano, la tela sembra un po’ assorbita nel fondo, nel canestro e nel tendaggio.

Presso il Museo Botanico dell’Università di Firenze, si conservano quattro copie parziali di questo “pomario”, realizzate nella seconda metà del 700.

Recuperata da un attento restauro e arricchita da una monumentale cornice, l’opera si pone a ideale pendant della gemella con i Fichi nell’inedita solennità della presentazione dei pomi, abilmente giocata su registri cromatici diversi e su accorgimenti compositivi quali il contrapporsi scenografico dei due tendaggi – sollevato nei fichi; tirato di lato nelle mele – e la varietà del fondo, chiuso nel primo dipinto, parzialmente aperto invece nel secondo, a far intravedere un tramonto infuocato.

1. S. Giovani
2 S. Bartola (?)
3 Appiola
4. Appiolona
5. Appiola lunga rossa (?)
6. (...) appiola
7. Vuona (?)
8. Panaia rossa
9. Renetta bastarda
10. Panaia bianca
11. Rosa
12. Regina
13. Tedesca
14. Poppina
15. Bugnola
16. Carpauda grigia
17. Carovella
18. Madresina
19. Violata
20. Franchetù
21. Dolce
22. Rossa
23. Francesca
24. Francesca rigata
25. Silia
26. Musa
27. A Spicchi
28. Reine Damme
29. Caciuola
30. Appiola di francia
31. Paradise
32. Zuccherine
33. Testa
34. Ruggine
35. Paradisa rossa
36. Manza
37. Boccapretta
38. Rossa di Lunigiana
39. Baccalare
40. Comusa
41. Grossa
42. Fior di Cassia
43. Signora
44. S. Piera
45. Sciampion
46. Dolce di Francia
47. Martin secco di Spagna
48. Diacciata
49. Martin peres
50. Lazzeruola
51. Appiolona rossa
52. Lunga



Fragrantia Durat


  
Bonifacio Bembo
Ritratti di Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti
Tempera su tavola, cm 40 x 31
(Cappella Cavalcabò in S. Agostino di Cremona)
Milano, Pinacoteca di Brera

Francesco Sforza era di umili origini e ciò costituiva un grave problema se persino il papa Pio II Piccolomini, riferendosi a lui, affermava: “Ai nostri giorni anche i servi diventan padroni” o Filippo Maria Visconti, il futuro suocero, poteva rinfacciargli di essere di quegli uomini o capitani dei quali “non sappiamo ancora che sia stato suo padre”.
Una volta sposata Bianca Maria si sentì più volte definire “bastardo marito di bastarda”. Egli tuttavia seppe reagire da uomo del rinascimento, avvalendosi del suo ingegno, della creatività personale e di certi inconfutabili segni del destino evidenziati in alcune imprese che segnano tappe importanti della sua famiglia o della sua vita politica.

  
La Mela Cotogna
Clipeo di S. Maria delle Grazie; affresco della fontana di Castello Sforzesco.

Tra le antiche imprese viscontee, per rassicurare i sudditi sulle capacità di buon governo e sulla legittimità del potere politico (la porta del chiostro di San Sigismondo a Cremona è un vero trattato) se ne aggiungono, con Francesco, di inconsuete.

La Mela Cotogna, già comparsa fra le zampe del leone sforzesco, doveva essere un gentile omaggio a Cotignola, la città originaria di tutta la dinastia.
Il frutto è di buon auspicio, anticamente veniva regalato agli sposi e decorava i talami nuziali con l’augurio che l’amore durasse fresco e a lungo come la fragranza della cotogna.
“Fragrantia durat” auspica infatti anche il motto sforzesco, ma le energie fisiche ed intellettuali del duca sappiamo che non dovevano durare ancora per molto.


Lo stemma Attendoli-Sforza venne adottato dal Comune di Cotignola, corredato dal motto "Fragrantia durat herculea capta manu".

Un leone d'oro, rampante, regge con la zampa anteriore sinistra un pomo cotogno giallo, provvisto di un ramo verde lungo fino a terra vestito di foglie, ramo al quale è poggiata la zampa inferiore destra, mentre la zampa anteriore destra è alzata; il tutto in scudo verticale con campo azzurro.
Sovrasta lo scudo un berretto rinascimentale con corona, sormontato nella parte anteriore da un drago crestato con zampe sporgenti che tengono tra gli artigli un grande anello gemmato; sugli aculei della cresta sono infissi anelli più piccoli. La testa del drago è una testa umana barbata e baffuta e ben pettinata.