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6 luglio 1944: Un violento bombardamento costò la vita a 275 persone.

«Dopo la seconda ondata il fumo e la polvere coprivano il cielo»
   

Un sibilo.   Poi una pioggia di bombe su Dalmine
Il racconto di Ilario Testa: fui scaraventato in cantina, mio padre si nascose in un tubo e si salvò
 

«Vede, era una giornata bellissima come oggi, il cielo era azzurro e limpido, si vedevano le montagne fino al Monte Rosa. E forse è per questo che attaccarono proprio quel giorno. Era mattina, io ero in ufficio, lavoravamo, improvvisamente abbiamo sentito un forte sibilo e ci siamo chiesti che cosa stava succedendo, siamo arrivati alla finestra in tempo per vedere saltare in aria il capannone. Lo spostamento d'aria fu tremendo, la parete vetrata che divideva gli uffici crollò e io con la coda dell'occhio vidi un maresciallo dell'esercito tedesco che si trovava per caso quella mattina in Dalmine, il soldato si era buttato in terra e camminava a quattro zampe e tutti gridavano...».
Ilario Testa, 57 anni dopo, è seduto nella poltrona del suo ufficio, in aeroporto. Guarda fuori dalla finestra, dice: «È passato tanto tempo. Avevo 19 anni, ero un ragazzo, lavoravo negli uffici della Dalmine e studiavo ragioneria. Ero fidanzato con Eugenia che sarebbe poi diventata mia moglie. Ricordo che la vidi mezz'ora prima del bombardamento. Io mi occupavo anche della cooperativa di consumo e per questa ragione potevo uscire dagli uffici. Con questa scusa ci vedevamo per un attimo, quasi tutte le mattine. Quella mattina ci incontrammo alle 10.30, sotto i portici, lei arrivò in bicicletta e ricordo che mi disse: "Guarda che siamo in preallarme", ma non ci feci caso, perché il preallarme era una cosa normale, non pensavamo assolutamente alla possibilità di un grande bombardamento. Pensavamo che la Dalmine non fosse un obiettivo strategico, chissà perché. Non avevamo nemmeno una difesa antiaerea. Eppure fabbricavamo involucri per le bombe, parti dei razzi V1 e V2 che bombardavano Londra...».
Ilario Testa allarga le braccia, guarda di nuovo fuori dalla finestra, c'è un Airbus che si muove pigramente sulla pista. «E poi c'era Pippo. Pippo era un aereo che tutti i giorni arrivava a ronzarci sopra la testa, altissimo. Ogni tanto sganciava una bomba. Pippo rappresentava la guerra psicologica, gli Alleati lo spedivano sopra i territori nemici per affermare la loro presenza, per innervosire gli avversari. Ecco, pensavo che il preallarme avesse a che fare con Pippo. E invece alle 11.02 sentimmo quel fischio e la prima deflagrazione. E le altre arrivarono subito dopo, nel giro forse di trenta, quaranta secondi, non so. Ricordo bene che non suonò alcun allarme, comparvero così, all'improvviso. Quei bombardieri sopra il cielo di Dalmine apparivano come punti di luce, brillavano altissimi, argentei».
In quel 6 luglio 1944, nel bombardamento di Dalmine persero la vita 275 persone, molte centinaia furono i feriti. Racconta Testa: «Così, carponi, uscii dall'ufficio e mi buttai giù per le scale, poi ho fatto un salto, non so neppure io come, e mi sono ritrovato in cantina. Erano cantine rinforzate, ma se ci fosse caduta sopra precisa una bomba non avrebbero tenuto. Riparavano dalle schegge e questo era fondamentale. Ero quasi in salvo, ma pensavo ai miei familiari, a mio padre che stava ai laminatoi. Dopo la seconda ondata di bombardieri, nel cielo non brillò più nulla. Uscimmo dalle cantine, il fumo e la polvere coprivano il cielo di Dalmine e io salii di sopra e ricordo che guardai giù dalla finestra dell'ufficio che non aveva più i vetri e vidi la fila degli operai che venivano dall'acciaieria, era una processione di uomini che sanguinavano, neri di fuliggine, uomini che urlavano, si lamentavano. Uscii di corsa dagli uffici, andai verso casa, incrociavo persone che sembravano fantasmi, il papà non era arrivato, tornò due-tre ore dopo quando ebbe finito di aiutare. Si salvò perché riuscì a infilarsi in un tubo. Stava per entrare prima di lui un giovane ingegnere di Verdello, Brolis, che si fermò e gli diede la precedenza. Mio padre si abbassò, lui restò in piedi: arrivò una scheggia che gli tagliò la gola, morì nella braccia di mio padre».
Testa si commuove quando ricorda di avere conosciuto e abbracciato la figlia di quel giovane ingegnere. «La incontrai in Argentina, era immigrata anche lei. Adesso, ogni anno, quando torno in Argentina, ci troviamo a pranzo con le famiglie». Dopo la guerra, Testa raggiunse l'Argentina con la famiglia Rocca, guidò le acciaierie costruite laggiù e poi con i Rocca tornò a Bergamo alla guida della Dalmine. Il presidente della Sacbo scuote la testa, ricorda il ritorno nella fabbrica dilaniata, l'aiuto dato per cercare di ricomporre i corpi. «Non dimenticherò mai il lavoro che fecero i frati quel giorno, l'impegno di don Sandro Bolis, del medico Agostino Richelmi. Si portarono fuori i banchi dalla chiesa e si portarono dentro quei poveri corpi, trasportati su quei carretti a due ruote, trainati a mano. Dalle porte laterali della chiesa uscirono rivoli di sangue. Sa una cosa? Sono storie lontane, eppure i miei nipotini, quando torno in Argentina, mi chiedono sempre di raccontargliele».
Dalla finestra del presidente, oltre la pista, si scorgono i Colli di San Fermo, ci sono nuvoloni bianchi come perle. Dice Testa: «Dal giorno dopo impiegati, operai e dirigenti si rimboccarono le maniche e andarono in fabbrica ad aggiustare e a pulire... Due settimane dopo ricominciammo a lavorare».
 

Paolo Aresi